Il Vescovo ai sacerdoti: “Siamo memoria viva di Cristo, della sua intera vita”

Giovedì 18 aprile, nella chiesa cattedrale di Treviso il vescovo Gianfranco Agostino ha presieduto la messa del Crisma. Moltissimi i sacerdoti diocesani che hanno concelebrato, oltre a numerosi sacerdoti originari di altri Paesi, che vivono nel nostro territorio e seguono le comunità cattoliche di immigrati, i sacerdoti che prestano il loro servizio pastorale di sostegno alle nostre parrocchie durante questo tempo forte dell’anno liturgico, i religiosi di diverse comunità, i diaconi permanenti e i cinque giovani diaconi che presto saranno ordinati presbiteri.

Hanno concelebrato anche i vescovi Paolo Magnani, emerito di Treviso, Angelo Daniel, emerito di Chioggia, e Alberto Bottari De Castello, già nunzio apostolico in Ungheria.

Mons. Gardin ha voluto anche ricordare “con un sentimento di vivissima gratitudine e di profonda comunione spirituale, i nostri presbiteri fidei donum che lavorano in Ciad, Brasile, Ecuador, Paraguay e Perù. Mons. Gardin ha centrato la sua riflessione “sulla nostra condizione di ministri ordinati, chiamati dal Signore ad essere nel mondo umili strumenti della sua salvezza” richiamando il senso dell’invito di Gesù “fate questo in memoria di me”. “Nella Chiesa noi siamo chiamati ad essere, anzitutto, memoria viva di Cristo – ha detto il Vescovo -. Una memoria continuamente attinta dalla Parola, che rende presente nella nostra vita, e nella vita della Chiesa, il suo mistero pasquale, sintesi perfetta di ciò che Egli è per noi, vera attuazione di quanto annunciato nella sinagoga di Nazaret. Il tutto di Gesù si racchiude nel suo mistero pasquale, e dunque nell’Eucarestia”.

Pubblichiamo l’omelia integrale del Vescovo:

“A tutti voi, fratelli e sorelle, qui riuniti per la celebrazione della Messa Crismale, il mio saluto nel Signore, con la gioia di poter condividere questo bel momento della nostra Chiesa diocesana. Chiesa che, in questa assemblea liturgica, è così ben rappresentata nelle sue diverse vocazioni, tutte radicate nel fondamentale e immenso dono pasquale del nostro Battesimo.

La tradizione vuole – come è noto – che questa Eucarestia sia la più significativa occasione liturgica di incontro e di comunione del vescovo con il suo presbiterio (cf. Pastores dabo vobis, 80); al presbiterio si unisce anche la comunità dei diaconi, permanenti e incamminati al presbiterato. Tutti, anche i presbiteri provenienti da altre diocesi, saluto con grande affetto. E sono lieto della presenza dell’arcivescovo Alberto e dei vescovi Paolo e Angelo, ai quali va il mio saluto cordialissimo. Vorrei poi che il pensiero di tutti noi fosse rivolto, con un sentimento di vivissima gratitudine e di profonda comunione spirituale, ai nostri presbiteri fidei donum che lavorano in Ciad, Brasile, Ecuador, Paraguay e Perù.

Un augurio sincero e gioioso va a tutti coloro che quest’anno festeggiano i vari giubilei sacerdotali: dai più anziani, che ricordano un lungo percorso di presbiterato (addirittura 75 anni), ricco di doni ricevuti e offerti, fino ai presbiteri che celebrano i 25 anni. A loro un grazie sincero, nel nome di una fraternità che ci vede accomunati dalla medesima vocazione e nella stessa Chiesa particolare. Un fraterno augurio anche ai cinque diaconi permanenti che celebrano quest’anno il loro 25° di ordinazione.

La mia semplice riflessione vorrebbe invitare, se mai ne sono capace, a porci di fronte alla nostra condizione di ministri ordinati, chiamati dal Signore ad essere nel mondo umili strumenti della sua salvezza.

Abbiamo sentito annunciare da Gesù, nella sinagoga di Nazaret, la sua missione, servendosi della parole di Isaia. Egli si presenta come l’unto, l’inviato dal Padre; mandato soprattutto ai poveri e agli oppressi, per portare liberazione. E la promessa di Dio si compie in Lui, nell’oggi perenne che Lui è. Anche per noi Gesù è l’oggi di Dio, e rende oggi di Dio anche questa nostro tempo e l’esistenza cristiana che ad ognuno di noi è donata grazie al Battesimo.

Dal suo invio e dalla sua missione proviene anche la missione di tutta la Chiesa e, in particolare, quella dei ministri ordinati. Il Signore ha voluto aver bisogno di tali ministri, anche se sappiamo bene che la sua grazia e la creatività dello Spirito va al di là di ogni “via ordinaria” di salvezza, giacché – per citare una nota e preziosissima affermazione della Guaudium et spes – «dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (GS 22). Un’espressione, questa, che illumina il nostro sguardo sull’intera umanità e ci fa benedire l’amore senza confini di Dio.

Tuttavia torna opportuno richiamare qui un testo del magistero in cui leggiamo: «Senza sacerdoti la Chiesa non potrebbe vivere quella fondamentale obbedienza che è al cuore stesso della sua esistenza e della sua missione nella storia: l’obbedienza al comando di Gesù: “Andate dunque e ammaestrate tutte le genti” (Mt 28,19) e “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11,24), ossia il comando di annunciare il Vangelo e di rinnovare ogni giorno il sacrificio del suo corpo dato e del suo sangue versato per la vita del mondo». (Pastores dabo vobis 1).

Poiché siamo nel Giovedì santo, giorno in cui facciamo memoria – lo vivremo nella seconda parte di questa giornata – dell’Ultima Cena di Gesù e di quanto avvenne quella sera nel Cenacolo (luogo carissimo ad ogni ministro ordinato), vorrei soffermarmi per qualche momento sull’invito di Gesù già richiamato: “fate questo in memoria di me”. Lo ripetiamo al cuore di ogni celebrazione eucaristica, sapendo che quel preciso comando racchiude il senso più vero del nostro ministero.

Quelle parole di Gesù ci chiedono dunque, anzitutto, che la memoria di Gesù sia in noi una memoria viva, stimolante, radice di ciò che noi siamo, e non solo di ciò che facciamo. Il nostro ministero, infatti, non è semplicemente una funzione, da assumere o deporre secondo degli orari o delle particolari incombenze: è uno stato di vita permanente, è una vocazione che pervade tutt’intera l’esistenza e ogni giornata, che plasma l’essere e guida l’agire.

Conosciamo il ricco significato del termine memoria nella Scrittura, espresso ancor più densamente dal termine memoriale: non un semplice ricordo che viene fatto riemergere da un passato lontano nel quale è sepolto, ma il rendere vivo e attuale un evento di cui diveniamo contemporanei e che ci coinvolge profondamente, perché avviene per noi, qui, oggi.

Nella Chiesa noi siamo chiamati ad essere, anzitutto, memoria viva di Cristo. Del resto – come ci ricorda papa Francesco – «il credente è fondamentalmente “uno che fa memoria”» (Evangelii gaudium 13). La memoria di Gesù dev’essere dentro di noi acuta e intensa, preziosissima e incancellabile. Una memoria mai totalmente dicibile, perché mai totalmente e definitivamente scoperta; una memoria che si fa esperienza sempre nuova e che non si può mai racchiudere in definizioni esaurienti; quasi una specie di – se posso esprimermi così, con linguaggio paradossale – di ossessione, ma liberante; di “chiodo fisso”, ma salutare e rasserenante; di tormento, ma dolcissimo e desiderato; di formidabile forza interiore insieme pacificante e sovversiva. In ogni caso, una memoria affascinante, che rende sempre viva la disponibilità a lasciare tutto e seguirlo; una memoria di cui non potremmo mai fare a meno, perché privi di Lui ci sentiamo al buio e al gelo, smarriti, senza radici, senza guida e senza mèta.

La memoria di Gesù, continuamente attinta dalla Parola, rende presente nella nostra vita, e nella vita della Chiesa, il suo mistero pasquale, sintesi perfetta di ciò che Egli è per noi, vera attuazione di quanto annunciato nella sinagoga di Nazaret. Il tutto di Gesù si racchiude nel suo mistero pasquale, e dunque nell’Eucarestia. Lì vi è il suo annuncio della “buona notizia”, il suo spendersi per i poveri, il suo prodigarsi per gli ultimi; ma vi è anche il suo essere per tanti anni l’umile e quasi sconosciuto “figlio del falegname” a Nazaret; e vi è poi il suo crescente sperimentare opposizione e rifiuto: da quel «volete andarvene anche voi?» rivolto ai Dodici nel momento in cui «molti dei suoi discepoli non andavano più con lui» (Gv 6,66s.), al sentir preferire a Lui dalla folla il delinquente Barabba; e ancora la sua energica determinazione nell’andare a Gerusalemme, ovvero verso il martirio; e ancora il suo piangere sulla tomba di Lazzaro; il suo salvare l’adultera dalla lapidazione e il suo narrare le parabole della misericordia; la sua preghiera straziante al Getzemani; il suo farsi – il giorno stesso della risurrezione – accompagnatore sconosciuto dei due sconfortati discepoli in cammino verso Emmaus.

Ecco qual è la nostra irrinunciabile memoria: non è solo il gesto eucaristico nel cenacolo; è la sua intera vita, rivelazione e dono dell’amore sconfinato del Padre. Come ci ricorda papa Francesco: «Tutta la vita di Gesù, il suo modo di trattare i poveri, i suoi gesti, la sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e infine la sua dedizione totale, tutto è prezioso e parla alla nostra vita personale. Ogni volta che si torna a scoprirlo, ci si convince che proprio questo è ciò di cui gli altri hanno bisogno, anche se non lo riconoscono» (Evangelii gaudium 265).

Questa memoria è anche quella che ci spinge ad andare, a fare (“fate questo”, dice Gesù). Non è il fare concitato di un attivismo che confida più nell’organizzazione che nelle relazioni; non è il fare che cede alla tentazione di verificare i risultati numerici, di misurare successi o insuccessi pastorali. È un fare semplicemente dovuto a quanto dichiaravano gli apostoli dopo la Pentecoste: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto» (At 4,20). Ed è un fare che prima di esprimersi in opere ed iniziative, prende forma in atteggiamenti, in testimonianza di vita, nell’ascoltare chi cerca il volto del Dio accogliente, del Dio che si protende verso i più poveri, i più smarriti, i più assetati di giustizia, di umanità vera, ma anche, e forse proprio per questo, assetati – magari inconsapevolmente – di vangelo e di incontro con Gesù Cristo.

E se vogliamo più attentamente ricondurre il fate questo alla memoria di quanto avvenne quella sera nel cenacolo, non può certo sfuggirci quel suo chinarsi a lavare i piedi agli apostoli. Il che significa essere servi, ed essere anche costruttori e custodi di unità nelle nostre comunità cristiane; rendendo anzitutto lo stesso presbiterio luogo di una reciproca lavanda dei piedi: praticando cioè vicinanza, compassione, ascolto, rispetto, non giudizio, soprattutto verso i fratelli che vivono particolari fatiche.

Il “fate questo in memoria di me”, dunque, ci formi e ci converta ogni giorno, alimentando quel riferimento a Cristo, Signore e Maestro, che costituisce la spina dorsale del nostro essere ministri, ma prima ancora del nostro essere discepoli.

Ma lasciatemi, prima di concludere, dire con sincerità: tutto questo che ho richiamato lo scorgo vissuto in tanti di voi, e ne rendo grazie al Signore, oltre che a voi stessi, mentre riconosco di ricevere – di aver ricevuto in questi anni – dalla testimonianza di molti il dono di tante salutari provocazioni per me e per il mio ministero.

E allora, fratelli presbiteri e diaconi, camminiamo nell’unità, nell’amore reciproco, nel portare con disponibilità gli uni il peso degli altri, e anche nel praticare una convinta e paziente sinodalità ecclesiale, quale contesto necessario per praticare quelle conversioni pastorali a cui papa Francesco ci sollecita e che abbiamo deciso insieme di perseguire nel nostro Cammino Sinodale.

Il Signore ci ha chiamati e insieme ci ha dato e ci dà la grazia di rispondere, nonostante le nostre fragilità, che Lui conosce e non disprezza, ma risana.

Il rinnovo delle promesse sacerdotali che tra poco pronunceremo sia la convinta riaffermazione della nostra fedeltà a Colui che, come ci ha ricordato l’Apocalisse, è «il testimone fedele, il primogenito dai morti, (…) Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» (Ap 5,8).

A tutti voi l’augurio di un Triduo pasquale vissuto in una fede intensa e in un amore convinto, resi nuovi dal Risorto. Colui nel quale riponiamo ogni nostra speranza.