Negli ultimi tempi mi ritrovo, di fronte a certi eventi, a commuovermi più facilmente di quanto avvenisse nel passato. Sarà debolezza senile? Se è così, ringrazio la vecchiaia di questi regali. Mi succede, per esempio, quando mi trovo davanti a giovani uomini o donne che decidono di donare la propria vita, tutta intera, al Signore e agli altri. Scorgo in tale decisione una singolare “bellezza”, di quelle che toccano il cuore. Mi colpisce questo mettere a disposizione tutto ciò che si è e si ha, questa assenza di barriere erette a difesa del “primato dell’io”, questo dichiarare con semplicità: “eccomi”. Come non vibrare di emozione di fronte a questa generosa “uscita da sé”? Uno di questi casi è anche la circostanza delle ordinazioni presbiterali, come quelle che avranno luogo nella nostra cattedrale il prossimo 25 maggio.
Certo, so bene che i cinque protagonisti di tale evento non sono né dei perfetti, né degli eroi, né dei supermen. A disposizione di Dio, della Chiesa e degli altri mettono tutto intero il “pacchetto” della loro persona e della loro vita; e, si sa, il pacchetto comprende anche fragilità, dubbi, cali di tono. Ma pare che il Signore non cerchi i perfetti (e dove mai li troverebbe?), e meno ancora quanti si considerano tali. Lui si serve semplicemente di uomini. La Lettera agli Ebrei ricorda che vengono costituiti sommi sacerdoti semplicemente degli «uomini», è per di più «soggetti a debolezza» (Eb 7,28). Si potrebbe pensare che se i nostri preti avessero tutti una fede granitica che nessuna prova può scalfire, se fossero dei “pesi massimi” della spiritualità, pronti ad andare anche verso il martirio con il petto in fuori, forse sarebbe tutto più meraviglioso… Forse. Ma potrebbero anche, chissà, essere percepiti dai loro fratelli e sorelle come persone lontane, fatti per stare sugli altari ma non per condividere le fatiche, le prove, le domande, dei cristiani “normali”.
Del resto quelli che ha chiamato Gesù… sappiamo com’è andata, nonostante il prolungato tempo di formazione con Lui (niente di meno); senza dire del capo, Pietro, e della sua miserevole figura di fronte alle domande di una servetta durante la passione del Signore… E di fatto i nostri prossimi ordinati vivono il loro sì al Signore anche come un “rischio”, chiedendosi: Ce la farò? Sarò all’altezza? Sarò fedele ogni giorno, fino all’ultimo?
Intendiamoci, se richiamo la loro fragile umanità, che dice in fondo la loro apprezzabile normalità, non ignoro certo i bei talenti dei nostri cinque che sabato prossimo verranno fatti ministri del Signore. Oltretutto, essi non si improvvisano preti, hanno compiuto un lungo e accurato percorso. Ma magari lo faccio anche perché il momento emozionante dell’ordinazione può indurre più di qualcuno a una certa, comprensibile, enfatizzazione della loro persona vista quasi “trasfigurata” dal momento sublime. Viene in mente il proverbio popolare (che induce ironicamente a un sano realismo) secondo il quale quando nascono sono tutti belli, quando si sposano sono tutti ricchi, quando muoiono sono tutti buoni…
Quella che ho definito “normalità” dei nostri nuovi preti fa sì che essi non abbiano affatto eliminato dalla loro vita quel desiderio che accomuna gli umani: la ricerca della felicità. Il fatto è che essi ritengono che tale felicità sia data per loro da una relazione intensa e affascinante con Gesù, dallo spendersi a “raccontare” Gesù agli altri aiutandoli ad incontrarlo, dal camminare con loro verso il Regno, dal fare spazio nella loro vita ai portatori di povertà diverse, dal porsi umilmente e pazientemente accanto ai cercatori di Dio, del bene, della pace del cuore, di un’umanità migliore…
Altri considereranno “strane” queste forme di felicità, o poco attraenti, insufficienti, addirittura incomprensibili. Ma per fortuna – meglio, per dono del Signore – c’è ancora chi le percepisce come felicità autentica, che merita di essere perseguita anche se ciò comporta fatiche. E chi pensa così diviene un dono per la comunità.
Nicola, Davide, Luca, Riccardo, Giacomo sono dunque dei doni. Li accogliamo con gratitudine, contenti (e anche commossi: non mi si lasci solo), nel sentirli dire: Eccomi, ci sono, la mia esistenza è per gli altri, perché così ha fatto e fa Gesù. E auguriamo loro – un augurio che si fa preghiera – di ripeterlo ogni giorno, per tutta la vita.