Finalmente ci siamo. Annunciato ufficialmente fin dallo scorso giugno, definito meglio nei contorni a settembre, con l’avvio del nuovo anno pastorale, e preparato dal lavoro di un’apposita Commissione, il Cammino Sinodale diocesano prende il via sabato 18 febbraio. Un percorso carico di aspettative, che vedrà impegnate le assemblee diocesane, quelle vicariali, e tutti i fedeli che vorranno accompagnare il cammino della nostra chiesa con la preghiera e tenendosi informati passo dopo passo. Per conoscere meglio il progetto abbiamo incontrato il vescovo Gianfranco Agostino, che ha proposto questo percorso alla nostra Diocesi e ne ha definito i contenuti e il significato con la lettera “Discepoli di Gesù per un nuovo stile di Chiesa”.
Che cos’è un Cammino Sinodale e da dove trae ispirazione questa scelta?
Trae ispirazione dalla prassi dei sinodi diocesani che è riemersa dopo il Concilio Vaticano II. Si tratta di uno strumento interessante nella vita della chiesa perché chiama in causa l’ecclesialità nel suo insieme. La nostra scelta è stata di adottare un modello, ma adattandolo, facendone qualcosa di più aperto e flessibile.
Quali sono i temi e gli obiettivi al centro del discernimento?
Sono due: la relazione con Gesù Cristo e la sua centralità nella vita dei credenti e delle comunità, e la presenza di cristiani adulti. Ma sono due temi che vogliamo collegare insieme e fare in modo che in questa chiesa, in questi cristiani la figura di Gesù acquisisca una maggiore conoscenza e centralità, soprattutto in relazione agli adulti, perché se gli adulti non sono depositari della fede è difficile che la possano trasmettere alle giovani generazioni.
Nella sua Lettera lei spiega che si tratta di un cammino in continuità con la Visita Pastorale. Il “vedere” (il primo passo del discernimento chiesto ai membri del Cammino Sinodale, ndr) restituisce, quindi, quanto emerso nella Visita, e lo arricchisce. Di quali ulteriori elementi?
La ragione più immediata della scelta di questo evento viene dalla Visita Pastorale, per non archiviarla sbrigativamente, ma valorizzando, anzi, quanto emerso. Proveremo infatti a rileggere quanto si è potuto “vedere” a partire da questa duplice preoccupazione che sentiamo di avere, la centralità di Gesù e gli adulti, lasciandoci sollecitare da alcune indicazioni interessanti e provocanti di papa Francesco. Con il “vedere” entra in campo la funzione della sinodalità: quanto noi abbiamo visto lo poniamo di fronte a un vasto numero di persone che sono i membri dell’assemblea diocesana, ma anche quelli delle assemblee vicariali, che a loro volta possono raccogliere altre sensibilità attorno a loro. Chiediamo le loro risposte, le reazioni e quindi i loro apporti che diventano certamente un arricchimento. Sono consapevole che tutto questo è laborioso, anche dal punto di vista metodologico, e che sarebbe più semplice metterci a tavolino, in tre responsabili, a valutare che cosa è emerso e a decidere che cosa bisogna fare, ma ci pare che sia così che deve operare una chiesa. Ci pare anche di aver preso sul serio quella richiesta di maggiore sinodalità che ci viene da papa Francesco ma che, andando più indietro ci viene dal Concilio Vaticano II, soprattutto dalla presentazione della Chiesa come popolo di Dio, caratterizzato dalla comune vocazione battesimale che rende tutti soggetti ecclesiali, soggetti di missione, e quindi anche necessariamente soggetti protagonisti della lettura della realtà, di discernimento e di lavoro comune per individuare le scelte da compiere.
Quali risorse positive ritiene sia importante mettere in campo per questo cammino?
Credo che la risorsa fondamentale sia proprio questa: la consapevolezza, che vorremmo far emergere ulteriormente, che noi siamo una chiesa dentro la storia. E la storia è in movimento, ci pone domande sempre nuove, a volte ci crea anche delle situazioni di sconforto, in altri casi ci spinge alla speranza, perché ci fa scorgere aspetti positivi. In questa storia che cammina, ci provoca, ci stimola, noi sentiamo che dobbiamo calare un vangelo che è vita e non è un reperto archeologico, né una realtà immobile. La risorsa fondamentale secondo me è il desiderio, che forse non c’è in tutti e che vorremmo stimolare, che i cristiani si sentano cristiani in questo luogo e in questo tempo. Altrimenti diventiamo cultori dell’archeologia.
Nella sua Lettera lei scrive che il Cammino Sinodale intende “avviare processi” più che trasformare rapidamente le cose. Può spiegarci questa affermazione?
L’espressione è tratta dalla “Evangelii Gaudium” di papa Francesco. Avviare processi non è un modo di cavarcela di fronte alla complessità delle domande e quindi anche alla difficoltà delle risposte che si potranno trovare. Non è un “Intanto partiamo”. Scegliere di avviare processi nasce dalla convinzione che quello che ci verrà richiesto probabilmente ha bisogno di conversioni notevoli che riguardano non solo il fare, ma prima di tutto l’essere, la sensibilità, la spiritualità, il modo di sentirsi chiesa, le relazioni da stabilire all’interno della chiesa. Altrimenti sono solo cambiamenti di facciata, verniciature molto provvisorie, mentre sentiamo che qui ci deve essere un cammino di conversione. Ecco il significato del Cammino Sinodale: non si tratta di fare una “manovra di aggiustamento”, si tratta forse di aprire dei percorsi nuovi. In questo siamo già stimolati e provocati, riconoscendone anche tutte le fatiche, dalle Collaborazioni Pastorali. Abbiamo sentito il bisogno, noi come molti, di ripensare l’assetto della nostra chiesa e abbiamo capito che non è una cosa che si può fare dall’oggi al domani con due decreti, ma c’è bisogno di mettere in moto delle energie, di comprendere meglio, di far crescere una sensibilità. Sentiamo che c’è bisogno di avviare dei processi, avendo però l’accortezza di accompagnarli, in un cammino dove non si perde la bussola, dove l’orientamento viene sempre messo a fuoco e ridefinito.
Come si coniugherà questo cammino con il percorso delle Collaborazioni Pastorali che la nostra Diocesi sta vivendo?
Questo cammino ci aiuterà a capire ulteriormente che le Collaborazioni Pastorali non sono solo una riorganizzazione amministrativa, un rendere i confini delle parrocchie meno rigidi, una redistribuzione del clero, un fare appello ai laici perché collaborino. Capiremo meglio che le Collaborazioni Pastorali diventano prima di tutto i luoghi della fede, non i luoghi dell’organizzazione delle attività. La fede ha bisogno di luoghi dove la comunità si incontra, celebra, si arricchisce dell’apporto di tutti, si forma. Questi luoghi, indispensabili, sono diversamente strutturati. E le Collaborazioni Pastorali non sono la fede, ma gli spazi in cui la fede è chiamata a vivere. Per questo non abbiamo posto questo tema come obiettivo fondamentale del Cammino. Le Collaborazioni diventano luoghi indispensabili affinché crescano adulti nella fede, perché la fede è vissuta insieme, in una comunità, in una chiesa, in rapporto ad altri, dove ci si aiuta. Anche gli spazi, quindi, non solo in senso fisico e geografico, hanno bisogno di essere pensati e riconosciuti nella loro sinodalità. Probabilmente questo cammino aiuterà le Collaborazioni Pastorali a capire meglio il proprio significato, e a loro volta le Collaborazioni, essendo spazio più ampio, soprattutto rispetto alle piccole parrocchie, aiuteranno i cristiani ad assumere la consapevolezza di essere chiesa che cammina nella storia.
(Alessandra Cecchin)